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Semiotropie. Eredità di Barthes
A cura di Giuseppe Crivella




Artaud. Scrittura/figura*
di Roland Barthes

(Traduzione di Giuseppe Crivella)

16 febbraio 2016




Come parlare di Artaud? Tale domanda non è soltanto specifica (essa potrebbe esserlo per qualsiasi autore) ma, se ci è concesso dirlo, semelfattiva (importa poco l’odore scientifico del termine): l’impossibilità di parlare di Artaud è quasi unica; Artaud è ciò che si chiama in filologia un hapax, una forma o un errore che si incontra una sola volta nel corso del testo. Questa singolarità non è quella del genio, né quella dell’eccesso, essa non ha nulla di ineffabile e può essere enunciata in un modo molto razionale: Artaud scrive nella distruzione del discorso; questa pratica suppone una temporalità complessa: il discorso, per dare a leggere la sua distruzione, non può né essere stato distrutto (nel qual caso la pagina sarebbe bianca), né soltanto annunziarsi come distruttibile (si tratterebbe ancora di discorso); è necessario, scandalo logico, che il discorso si ripieghi su se stesso senza sosta con veemenza e si divori come un personaggio sadiano, manducatore dei suoi stessi escrementi. Senza dubbio l’imprecazione di Artaud, gettata in modo sempiterno alla porcheria della scrittura, può essere inarrestabilmente recuperato dal discorso stesso della imprecazione: è il pericolo di ogni violenza: nulla è più fragile della violenza: il codice la spia e il senso finora ha sempre trionfato su di essa (per questo motivo, rispetto alla distruzione del discorso — occidentale, cristiano, ecc. — si può tatticamente preferire un discorso astuto a un discorso violento, Brecht e Artaud).

Dinanzi a questa oscillazione minacciosa (espressione semplice di una alienazione storica della scrittura), sta al lettore liberare il testo dalla istituzione letteraria: il lettore, ovvero quel soggetto fragile, straziato, pluralizzato, che si trova preso nella comunicazione che gli impone Artaud (questa comunicazione definisce il testo d’Artaud tanto quanto la sua struttura retorica). Bernanrd Lamarche-Vadel è per noi questo lettore: egli ha scritto la sua lettura. Tale espressione non denota un discorso critico o analitico; Lamarche-Vadel propriamente non ha recensito idee, temi, forme, non ha sviluppato il nostro sapere su Artaud, non ha culturalizzato Artaud (e ha avuto bisogno per questo di un certo coraggio o una certa confidenza o una certa innocenza, vista la destinazione universitaria che egli ha accettato di dare al suo testo); la sua materia principale (il suo /soggetto/, come si dice nella retorica scolastica) è stata la sua stessa scrittura: e tuttavia Artaud vi è più presente che in molte altre dissertazioni “su” Artaud. Tale riuscita dipende dal fatto che la scrittura di Lamarche-Vadel è molte volte (a molteplici livelli) citazionale.

Il testo stesso di Artaud (il suo testo storico, filologico, editoriale) è irresistibilmente preso nel volume del testo di Lamarche-Vadel; sono come delle bolle di nutrimento che scoppiano alla luce del secondo testo; Artaud è ricopiato nel suo fulgore, nella sua vocazione citazionale, nella sua energia di scrittura (ciò vuol dire, secondo la terminologia attuale, come produzione e non come prodotto): smembrato, frammentato, egli sciama; si ottiene così, tramite un ritorno paradossale, un sapere di Artaud superiore ad ogni sapere didattico, filologico, storico, che il discorso della scientificità potrebbe racimolare su Artaud; andando fino in fondo, potremmo dire: felice colui che conosce Artaud solo sotto la sua forma infranta, disseminata, eraclitea (la «porcheria della scrittura»» non è altro che il suo continuum, quel flumen orationis in cui l’antica retorica riconosceva il valore supremo dello stile e che Flaubert, fortunatamente per lui, non è mai riuscito a raggiungere).

Lamarche-Vadel cita Artaud in un altro modo: non imitandolo, ma ricalcando ciò che potremmo chiamare i suoi movimenti di corpo; la scrittura (qualora essa si compia al di fuori della semplice scrivenza [1]) è in effetti il corpo rigenerato da se stesso, per feticismo narcisista o per isteria collettiva: ciò che Lamarche-Vadel chiama senza dubbio la figura. Lamarche-Vadel si colloca nella respirazione del corpo scritturale di Artaud; senza mai parodiarlo, egli ne ritrova, nella sua pratica e non, ancora una volta, nella sua analisi, l’intera natura eretica, vale a dire le sensualità, i chiarori, le sorprese, le fratture e in una maniera più generale, il valore nuovo (sebbene timidamente, qui e là, ricercato): la scrittura-idea, l’idea scritta, la cui funzione attuale è di disperdere il discorso antecendente, filosofico o letterario e di confondere l’opposizione tra l’arte e il pensiero, tra la cosa enunciata e la forma enunciante.

A un terzo livello, ciò che Lamarche-Vadel mette in scena non è solo Artaud (nella sua lettera e nella sua figura), è ogni scrittura. La scrittura, in effetti, non è fatta da «tratti» stilistici, ma di rifiuti, disposti in volute e sinuosità, in invenzioni, in concessioni e riprese; la scrittura, in una parola, è uno spazio tattico, determinato in rapporto alla cultura anteriore, uno scivolamento improvviso lungo la china della lingua millenaria, paterna. Qui, Lamarche-Vadel raggiunge ancora una volta esattamente Artaud: il suo testo è una rottura che tuttavia perviene a strapparsi al gesto della castrazione: c’è un sapore profondo del testo che si va a leggere (il sapore, non dimentichiamolo, è la figura stessa del combinatorio: il piacere che ne risulta non è idealistico).

Insomma, alla questione: come parlare di Artaud? Lamarche-Vadel risponde: non parlarne, neppure scrivere «su» Artaud, ma: scrivere con Artaud. Così si sostituisce alla critica trascendentale (cardare [2] il testo di un autore tramite un discorso che lo «comprenda»), una scrittura concomitante, un carosello di testi, che non fa (o non farà) dell’autore (qui Artaud, Lamarche-Vadel) che un gesto innescato dal corpo ma continuato dalla massa.


* Il testo, datato da Barthes 21 giugno 1971, doveva servire da prefazione per un libro di Bernard Lamarche-Vadel su Antonin Artaud, che l’autore ha rinunciato a pubblicare. Poi apparso in Luna Park, n. 7, marzo 1981. Cfr. OC V, 877-879.

[1] /Écrivance/, conio di Barthes. Presente anche nel saggio su Sollers posteriore di qualche anno, cfr. CO V, p. 611.
[2] Barthes usa /coiffer/ che propriamente significa /pettinare/, volendo dare il senso di un passaggio continuo e simultaneo dello strumento critico all’interno della folta massa del testo al fine di districarne i vari significati annodati gli uni agli altri.



Antonin Artaud in Napoléon di Abel Gance

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